Monte Castel Manardo

Il versante Nord dei Sibillini, alla ricerca dei profili mai visti delle montagne azzurre.
Molte erano le promesse e le speranze che avevo riposto sull'escursione di oggi, orizzonti e profili nuovi, i Sibillini visti da Nord, ma è andata diversamente; quasi subito nebbia e nuvole basse, la conquista di ogni minimo segnale per non perdere la direzione e quella di aver perso scorci belli, conosciuti ma dalle prospettive nuove.


Siamo stati in dubbio fino all’ultimo se uscire o restare a casa, non c’erano ancora decreti restrittivi ma molti erano gli inviti a non creare assembramenti, il nemico invisibile, quel Covid19 che a lungo ricorderemo, iniziava ad allungare la sua lunga mano verso le nostre zone. All’aria aperta e in montagna, ha prevalso la sensibilità che non esistesse luogo migliore per salvaguardarsi, è stato però mesto il ritorno sulle montagne azzurre. Non ero mai stato sul monte Amandola e sul Castel Manardo, il versante Nord dei Sibillini a parte l’escursione alle gole del Fiastrone e alle Lame Rosse mi ha visto solo in veste di turista della domenica con tante belle gite in scooter; Marina che invece c’era già stata, rispolverando le sue vecchie esperienze mi ha proposto la facile salita al monte Amandola dal rifugio Città di Amandola 1183m., monte Castel Manardo di poco più in là e sulla stessa dorsale era un prolungamento naturale, quasi scontato. Ho trovato bellissima la proposta, mi attirava andare a curiosare sui Sibillini da prospettive diverse, conoscere nuovi scorci e andare a cercare magari anche qualche spunto per dei giri fuori dai soliti sentieri. Da Ascoli le montagne sono a portata di mano, ci tiriamo giù dal letto comodamente ad orario più che umano e alle 8 di mattina siamo già sulla strada che sale al rifugio Città di Amandola, venti minuti dopo eravamo pronti per partire, con noi oggi Roberta, desiderava da tempo farsi una bella camminata. Il rifugio è al limite della leggera spolverata di neve dei giorni precedenti, cinquanta metri sopra i sentieri sono già bianchi e leggermente ghiacciati, il sentiero 241 parte alla sua sinistra, una palina lo indica chiaramente, la traccia è altrettanto chiara, direzione Pizzo Tre Vescovi, e già questo indizio mi fa sognare nuove possibilità, la passeggiata di oggi non era partita e già stavo pensando ad una sua possibile evoluzione; sale lento, qualche tornante per prendere agevolmente quota e traversa verso Nord, alto alle spalle del rifugio e sul fianco monotono e uniforme di monte Amandola. Sulle linee della montagna all’orizzonte sparuti alberi e poco più in là una lingua isolata e ordinata di faggi, sono disegnati, esaltati dalla galaverna notturna. Sono veloci le nuvole e nemmeno troppo alte, corrono modificando continuamente cielo ed orizzonti, a tratti sono anche scure e minacciose ma quando lasciano spazio all’azzurro del cielo e al sole i contrasti di colori sono entusiasmanti, bianco e congelato il fianco della montagna, seppur lo spessore di neve a basse quote sia davvero sottile, brune le colline sottostanti, azzurro accecante il cielo, grigie le nuvole all’orizzonte, una tavolozza davvero variopinta su cui non c’era posto per le sfumature. E’ breve la lingua di bosco che attraversiamo, una parentesi incantata, i rami degli alberi sono ancora ricoperti della poca neve caduta e congelata dalle temperature notturne, i primi raggi di sole e le poche sferzate di vento che ogni tanto li scuotono creano attimi di bufera, turbinii di schegge ghiacciate svolazzano dappertutto, è l’occasione imperdibile per cercare qualche bello scatto da portarmi a casa, Marina e Roberta ne approfittano per distanziarmi. Un po’ dopo il pendio diventa molto più ripido, il sentiero lo taglia sottile in leggera salita e per quanto non esistano difficoltà oggettive diventa proibito inciampare, i terreno ghiacciato diventerebbe uno scivolo ingestibile; dura niente, meno male, qualche tornante e ci infiliamo in una sorta di piccolo avvallamento protetto, quasi una trincea, nello stesso momento le nuvole ci si stringono addosso repentinamente e ogni orizzonte diventa semplicemente una fantasia. Ci ritroviamo, nemmeno il tempo di pensarlo, in mezzo ad un nebbione, meglio dire in mezzo alle nuvole, a tratti perdiamo di vista le nostre sagome, camminiamo serrati seguendo la traccia comunque evidente per un calpestio precedente e marcata ogni tanto dai segnali bianco-rossi del CAI. Quando il sentiero vira verso Ovest aggirando la montagna manca poco all’incrocio con la traccia che sale a monte Amandola che è poco marcata ma è contraddistinta da un omino in pietra con tanto di bandierina (+1.40 ore); diritti per una poco accentuata valle si sale al monte Amandola a destra si continua per Castel Manardo, non vi aspettate però nessuna indicazione dettagliata. Una manciata di minuti su quello che sembra diventato un ampio tratturo e sul lato sinistro un ulteriore piccolo ometto con una bandierina bianco-rossa è il punto di svolta per Castel Manardo; anche qui nessun cartello, la carrareccia avanza in piano diritta fin tanto la nebbia ci consente di vederla, non fidandoci delle orme che dall’omino si staccano sulla sinistra la seguiamo per circa duecento-trecento metri ma quando si perde sul pendio davanti ritorniamo sui nostri passi fino all’omino. Le nuvole sono rimaste basse e compatte, permettono di vedere appena i nostri profili e se non ci distanziamo troppo, la traccia di chi ci ha anticipato, credo i giorni precedenti, si perde presto; intravediamo una palina con la bandierina bianco-rossa, continuiamo in quella direzione affidandoci solo a questa presenza, poi una seconda. Le seguiamo confusi in tanto annullamento dei sensi, sul falso piano o dentro quella che ci appare come una larga valle tra le morbide elevazioni che sembrano circondarci la successiva palina manca all’appello; ogni direzione potrebbe essere quella giusta ed è fondamentale trovare un segno, ci allarghiamo per cercarlo, rimaniamo a vista e per fortuna non tardiamo a trovarla, la palina c’è ma è caduta ed è quasi sommersa dalla neve; basta per rinfrancarci, continuiamo nella stessa direzione, poi in aiuto ci viene un improvviso allargamento degli orizzonti, è un attimo ma ci basta per scorgere una palina lontana che raggiungiamo nonostante l’orizzonte si richiuda di nuovo, poco avanti incrociamo una ampia carrareccia che prendiamo a seguire a sinistra. Qualche centinaio di metri e nel biancore del nulla si materializza ancora sfumata la sagoma di un casotto, avvicinandoci sembra anche ben tenuto e in qualche maniera custodito, meglio dire non abbandonato. Si tratta di Casale Grascette (+40 min.), un rifugio bivacco, aperto, con tanto di camino, un lavabo e poco altro ma tanto basta per permetterci di sfuggire un attimo dalla morsa del vento che si è fatto gelido, ne approfittiamo per mangiare senza fretta qualcosa. Serve capire dove siamo, prendo la carta sulla quale non avevo annotato nessun rifugio o stazzo, trovo solo un generico simbolo di un bivacco poco fuori sentiero, anzi su quello che è diventato il 244, mi basta e ci permette di localizzarci con precisione. Il sentiero 241 lo abbiamo perso alle nostre spalle, più o meno quando abbiamo incrociato la carrareccia, a questo punto scorre una cinquantina di metri sopra, raggiungerlo tagliando a mezza costa non ci verrà difficile. Accompagnati dai mugugni di Roberta, forse non abituata a queste condizioni, raggiungiamo il nostro sentiero che ritorna ad essere una larga carrareccia, viste le condizioni così variabili costruisco un piccolo ometto su ciglio della strada che ci potrà tornare utile sulla via del rientro. Mentre cammino rifletto sulle leggere pendenze che abbiamo intorno e sulle tante strade che percorrono questo “quasi altopiano”, peccato per le nuvole perché il paesaggio dovrebbe essere davvero notevole, mi immagino ampie e dolci preterie di quota, ci troviamo intorno ai 1750m., dovremmo essere sopra il Balzo Rosso, il che vorrebbe dire che alla nostra sinistra dovremmo poter vedere la profonda valle dell’Ambro e di fronte la lunga dorsale che sale fino alla Priora, magari con vista fino alla testata della valle e fino ai profili del monte Acuto e del Pizzo Tre Vescovi; non c’erano le condizioni ma speravo in un improvviso allargamento degli orizzonti, speravo di poter rimanere per pochi istanti sopra le nuvole al cospetto delle cime dei Sibillini, sarebbe stato un delirio di bellezza, e per questo valeva la pena andare avanti, in fondo il detto dice che l’audacia di solito viene premiata, no? Sempre in costante leggera salita la strada sale con alcuni ampi curvoni fino a sfiorare un altro stazzo pastorale, questo davvero non è riportato sulla carta, per qualche istante le nuvole si diradano, per un attimo quasi intravediamo la profonda “forra” della valle dell’Ambro, la docile ma ampia elevazione che abbiamo davanti, stando alla direzione ritengo essere Castel Manardo. Tutto però rimane costantemente senza un contorno definito, terra innevata e le nuvole sono un tutt’uno aumentando il senso di confusione e poco orientamento che aleggiano nelle nostre teste. Mentre continuiamo ad avanzare nella larga carrareccia e nel bianco omogeneo del niente compaiono, tagliandoci la via e in fila come tanti soldatini, dei pali che risalgono il pendio alla distanza di 50m. circa l’uno dall’altro, in testa hanno un cartello (+20m.), ricordavo la carta, su questa dorsale passava rettilineo il confine del parco dei Sibillini, se quei cartelli fossero stati effettivamente quelli della linea di confine del parco sarebbe bastato seguirli in salita per raggiungere la cima di Castel Manardo, e se le cose stavano davvero così, continuare a seguire la strada ci avrebbe portato a fonte Gorga, di poco sotto la vetta di Castel Manardo ma su un altro versante. Una costruzione di pensieri fatta su due piedi, salgo per leggere il primo cartello perché avevo bisogno di conferme, magari si trattava di una banale divieto di caccia e invece no, sul cartello uno solo dei due occhi puntava la luna, l’altro era coperto dalla galaverna ghiacciata (l’emblema del parco, lo ricordate? Due picchi verdi stilizzati, entrambi guardano lo spicchio di luna nel fondo del cielo blu); più in alto si intravede un palo simile e ancora più su un altro appena percettibile, per essere certo consulto la carta, il confine punta diritto per circa un chilometro fino a raggiungere la vetta di Castel Manardo che comunque per una manciata di metri ricade fuori dal parco. Roberta continua a mugugnare, forse ora col vento che sferza e le nuvole che si sono richiuse ulteriormente non capisce la necessità di tanta ostinazione nel raggiungere la cima, la capisco un po’ e credo ci stia tutto, è la differenza di spirito che intercorre tra l’escursionista e l’arrampicatore, forse teme anche per il ritorno. Seguiamo la linea di confine, qualche palo deve essere crollato e gli spazi si allungano, reti abbattute tracciano comunque la via e poi, come è già capitato in precedenza, cogliamo l’attimo in cui le nuvole si diradano di un nonnulla per capire dove ci trovavamo rispetto alla cima (chiamarla cima è davvero troppo, i 1917m. saranno pure una considerevole quota ma stiamo parlando, almeno dal nostro punto di osservazione e da questo versante di un immane mammellone poco pronunciato); la direzione è comunque chiara e dopo l’aiuto ricevuto le nuvole si richiudono di nuovo, non ci danno tregua e continuiamo verso la cima al “buio”. Un grosso omino lungo il percorso che incontriamo da lì a poco illude Roberta di essere in vetta, tocca spingerla quasi per fargli fare le poche centinaia di metri che ci dividono da quella vera. Nel nulla più assoluto una palina più grande e bassa delle altre conficcata a terra dichiara la cima, i versanti attorno scendono, quasi ci fossimo dati appuntamento le nuvole si scuriscono e sembrano stringercisi addosso, inutile porsi altri dubbi, eravamo in quella che a dispetto delle apparenze era comunque una vetta (+40m.). Poche foto, data la nulla visibilità era inutile anche montare un cavalletto per farcene una insieme; comunque felice di esserci arrivato rimpiangevo i panorami che ci stavamo perdendo, e contavo già che in un altro momento, sicuramente non lontano, in cui saremmo ritornati da queste parti. Nulla più tratteneva Roberta a questo punto e a dire il vero nemmeno io e Marina avevamo una ragione per non riprendere la via del rientro; ripercorriamo integralmente la via di salita, le nostre orme e i pali di confine ci facilitano, scendere in quel pendio leggero è stato veloce, ho anche rischiato, tanto andavo correndo di non vedere la carrareccia e di oltrepassarla, le orme che sono sparite repentinamente mi hanno destato. Velocemente superiamo il primo stazzo, raggiungiamo l’omino che avevo costruito lungo la strada e scendiamo fino a Cascina Grascette; riprendiamo la traccia della mattina e abbandonando definitivamente la carrareccia ci buttiamo a seguire le nostre orme sul falso piano, intorno ai 1650 metri le nuvole si alzano e gli orizzonti si allungano, anche qualche raggio di sole le riesce a bucare. Nel biancore ora assoluto, diffuso e accecante le linee tra terra e cielo si confondono inesorabilmente ma non tanto da non farci distinguere la tonda dorsale di monte Amandola, percettibile anche la croce in vetta. Per un attimo abbiamo la tentazione di raggiugerla, ma è solo un attimo, per oggi può bastare e continuiamo a scendere. Quando raggiungiamo l’omino all’incrocio col sentiero per monte Amandola usciamo dalle nuvole. Marina e Roberta sono qualche decina di metri davanti a me, calpestano neve ormai marcia, hanno entrambe gli zaini verde pisello, le loro sagome e i colori del loro abbigliamento risaltano esageratamente sullo sfondo delle brune e spoglie colline, danno l’impressione di infilarsi a fatica, schiacciate come sembrano, tra una coperta di nubi, ora scurissime, ed il profilo della montagna; un quadro da fine inverno. Sono momenti suggestivi che sfuggono veloci, non ci si stancherebbe mai di questi attimi che sembrano fermare il tempo. Il resto della discesa è ancora più veloce, dalla vetta in meno di due ore abbiamo raggiunto il rifugio. Abbiamo fame e per fortuna troviamo posto, ci viene proposto un tavolo proprio di fronte ad una foto appesa alla parete con un panorama mozzafiato che da sulla dorsale del monte Priora e anche più lontano, ci vuole poco per immaginare che avremmo visto esattamente quei profili se le nuvole in qualche momento si fossero diradate. La stessa escursione di oggi andava assolutamente ripetuta, magari allungandosi fino al Fargno passando per il monte Acuto e per il Pizzo Tre Vescovi, magari dormendoci al Fargno, per rientrare per altre vie nuove, magari anche per compiere una attraversata fino a Frontignano (quando si sogna i chilometri non pesano). Al Città di Amandola mangiamo divinamente ma distanziati come le norme prescrivono, come dire che è arrivata la sveglia dopo la bella e leggera giornata; sono i primi momenti surreali di qualcosa che a stento riusciamo a capire e che da lì a pochi giorni ci sconvolgerà la vita. Oggi è andata così, oggi c’è stato spazio per la montagna, quel giorno non potevo immaginare quello che oggi che sto scrivendo conosco e vivo. Le montagne non si muovono, ritorneranno, lo abbiamo detto tante volte ma oggi vale più che mai; adesso ci manca sapere solo quando sarà possibile ritornarci, per adesso conta di più pensare a come venir fuori il prima possibile da questa situazione irreale.